Intervista a Jak Hutchcraft Heidi Rebel e Manets
28 febbraio 2024
I nostri inviati dj Heidi Rebel & Manets intervistano Jak Hutchcraft, regista inglese realizzatore del documentario “Fatboy Slim: Right Here, Right Now” (trasmesso per la prima volta in Italia a questa decima edizione del SEEYOUSOUND Festival di Torino al Cinema Massimo) riguardante uno dei più grandi e memorabili eventi musicali gratuiti nella storia del Regno Unito: il Big Beach Boutique II di Fatboy Slim a Brighton nel 2002.
Tu e Norman (Fatboy Slim) siete entrambi inglesi e attualmente vivete entrambi a Brighton. Come l’hai conosciuto la prima volta e come sei entrato in contatto con lui per la realizzazione di questo documentario?
Jak: Ho avuto l’idea mentre ero in lockdown durante il covid-19, ho pensato che fosse una buona idea per un documentario perché rappresentava proprio l’opposto di ciò che stava succedendo in lockdown, senza più concerti e con il distanziamento sociale. Stavo guardando dei video di questo suo grande dj-set e ho avuto l’idea di fare il documentario. Ho iniziato a lavorarci su e ho inviato una e-mail al suo management, non li conoscevo, e l’idea è piaciuta. Abbiamo parlato molto e poi un giorno sono stato invitato a casa di Norman Cook, ecco come l’ho conosciuto. Aveva deciso di invitarmi a casa sua perché voleva sentire la mia idea e conoscermi per capire meglio. Ero seduto nella sua cucina ed era terrificante per me, sapete, non lo conoscevo ed ero a casa sua… lui è una leggenda. Ero lì per proporgli la mia idea, perciò sentivo molta pressione in quel momento, ma quando mi sono seduto lì e abbiamo iniziato a mangiare patatine insieme è stato davvero gentile. È stato proprio carino, di mentalità aperta e sincero. Quindi nel corso di un paio d’ore abbiamo parlato tanto dell’idea e decise di darmi una possibilità dicendo “okay, facciamolo”. È un tipo molto semplice e normale. Lo si può incontrare spesso in giro per Brighton, magari a qualche mostra o all’interno di qualche negozio.
Parliamo di questo suo grande dj-set che avvenne il 13 luglio 2002. Eri presente quel giorno a Brighton Beach?
Jak: No, non c’ero. Ero piccolo, avevo dieci anni all’epoca, e poi io sono dello Yorkshire che è dalla parte opposta del paese. Ma sapete, sono stato attratto dall’idea proprio perché non ero presente. Questo dj-set ha una fama leggendaria nel Regno Unito. Mio fratello maggiore aveva il cd, io ho guardato tantissimi video. Nella dance music e nella cultura musicale in generale, questo dj-set è proprio una cosa importante. C’erano un sacco di persone, molte hanno opinioni al riguardo. E quindi mi ci sono approcciato, penso e spero, da un punto di vista abbastanza distaccato: non ho i miei ricordi di quel giorno, non ho amici che ci andarono. Quindimi sono approcciato dall’esterno e ho cercato di raccontare l’intera storia. Inoltre, non ho potuto iniziare a frequentare club e concerti fino all’età di almeno 13/14 anni.
Sappiamo che da quel giorno la gestione nell’organizzazione degli eventi nel Regno Unito è completamente cambiata, e non solo nel Regno Unito. In che modo? Secondo te qual è stato il maggior impatto che ha avuto sulle persone?
Jak: Da quello che capisco, avendo intervistato persone che sono state coinvolte nell’organizzazione di quell’evento e anche persone che insegnano all’università e promoters, il modo in cui è cambiata la musica live nel Regno Unito è dovuto al fatto che quel giorno fu così pericoloso… ci fu talmente tanto caos, un grande rischio legale e molta disorganizzazione che hanno fatto capire di non poterlo più fare. Non avrebbero più potuto organizzare un evento gratuito di quella portata invitando il mondo intero. Perché purtroppo quel giorno ci fu una persona che perse la vita, Karen Manders, di cui parliamo anche nel film… È molto triste e avrebbe potuto essere molto peggio. Molte persone sarebbero potute morire o rimanere ferite o rimanere intrappolate nel mare. Quindi penso che fu quasi un miracolo. Diventò un limite da non superare mai più. Ecco come è cambiato tutto. Da lì le cose sono diventate più sicure, con più polizia, più addetti alla sicurezza, più organizzazione da quel punto di vista. È così che è cambiato il mondo della musica dal vivo. E adesso è una materia che viene insegnata nelle università. In alcune università del Regno Unito insegnano organizzazione degli eventi dove spiegano cosa è andato storto e cosa è andato bene quel giorno e cosa possiamo imparare da ciò. E anche come cambiò la cultura dei DJ e della musica dance, di nuovo da quello che ho imparato durante la realizzazione del film, per il fatto che questo evento fece capire alla gente quanto fossero grandi i DJ. Perché, sapete, nel corso degli anni ’90 c’erano grandi rave illegali, clubs e super clubs… ma questo fu un evento pubblico con 250.000 persone. Da questo punto in avanti i DJ come Fatboy Slim, The Chemical Brothers, The Prodigy… furono come delle rockstar, sullo stesso livello. Quindi penso che chiunque non se ne fosse reso conto, sicuramente se ne rese conto dopo quella volta. Perché da lì in poi, in quel periodo, i DJ iniziarono ad essere headliner nei festival e ad essere maggiormente riconosciuti e presi più sul serio nella più ampia scena musicale invece che solo in situazioni piccole come i club o i rave.
Pensi che un evento simile a quello sarebbe possibile oggi?
Jak: Non di quella stessa portata, no… non credo. Ma, riguardo alla cultura rave e delle feste illegali e gratuite, si verificano ancora molto nel Regno Unito, ogni weekend se sai dove trovarle. Ma sono molto più piccole adesso, magari uncentinaio o qualche centinaio di persone, non migliaia. Perché le persone hanno imparato la lezione ma anche per non attirare troppo l’attenzione. Quindi penso che la scena delle feste gratuite sia ancora viva e vegeta ma semplicemente più piccola e sparsa un po’ dappertutto. Deve esserlo perché la polizia può essere stronza.
Trovi delle differenze/somiglianze tra questo SEEYOUSOUND Festival di Torino e il Doc’n Roll Film Festival di Londra?
Jak: Il Doc’n Roll lo fanno in varie città del Regno Unito. Lo fanno a Londra e a Brighton, ma anche in Irlanda, a Dublino… insomma ha una diffusione molto più ampia in tutto il paese. Il SEEYOUSOUND invece mi sembra diverso perché fa parte unicamente della cultura della città di Torino. Succede solo qui, le persone vengono in città per questo e ci sono grandi proiezioni sugli edifici e cartelli ovunque, ed è proprio accanto al Museo del Cinema. Quindi penso sia diverso, sembra proprio una parte importante della cultura di Torino, mentre il Doc’n Roll ha una diffusione capillare in tutto il Regno Unito. Ma in comune hanno entrambi delle incredibili rassegne di film, una fantastica cura nella scelta dei film. Ci vuole molta passione e creatività, e anche coraggio a volte, nel mettere questi film in programmazione perché solitamente non li vedi da nessun’altra parte.
Tu sei un giornalista e hai lavorato con VICE, Noisey, The i Paper, The Guardian, The Telegraph, per citarne alcuni. Come classifichi questo documentario tra tutti i lavori che hai fatto finora?
Jak: È la cosa più impegnativa che io abbia mai fatto ma anche la più gratificante e la più divertente. In realtà penso che tutti i miei lavori siano parte della stessa cosa, un unico corpus di opere che sto costruendo nella mia vita e su cui spendo il mio tempo invece di trovarmi un lavoro normale, perché preferisco questo tipo di vita. Penso che questo argomento si adatti a molti miei lavori sulle sottoculture, sulla comunità, sulla musica e sulle persone che stanno dietro la musica, esaminando non solo il DJ famoso o le grandi band ma guardando anche alle persone che stanno intorno: i fan e le comunità di persone che ci lavorano dietro. Questo è qualcosa su cui mi concentro sempre molto, ciò che accade nell’underground o ai margini della società. In molti miei lavori parlo di queste cose. E questo documentario è un esempio di underground che diventa overground. È una storia che include queste sottoculture e di come la scena della dance music che si era sviluppata negli anni ’90 esplose e diventò così grande nel 2002.
Come classifico questo documentario? Beh, lo adoro davvero. E vorrei farne un altro. Sto già iniziando a farne uno nuovo. Ho imparato talmente tanto facendo questo, che sento di dover continuare, perché ho un sacco di idee e la mia immaginazione è stimolata, riesco a vedere tutti i film che vorrei fare in futuro. E questo qui al momento è il lavoro di cui vado più fiero e da cui ho imparato di più.
Suoni anche in una band chiamata WACO e organizzi una serata mensile a Brighton chiamata “Sound Affects” dedicata alla musica, ai suoni e alle sottoculture. Che cosa pensi delle radio libere e indipendenti come Radio Bandito che sono anch’esse espressione di sottoculture?
Jak: Sì, penso che Radio Bandito sia una cosa fantastica. È una parte molto importante della cultura e delle sottoculture della musica, perché il neoliberismo e il capitalismo inghiottiscono tutto ciò che possiamo immaginare. Le grandi corporazioni lentamente ma inesorabilmente si appropriano di tutto e cercano di vendercelo o semplicemente decidono di cancellarlo della mappa culturale. Quindi penso che essere indipendenti sia incredibilmente importante e anche molto difficile al giorno d’oggi nel mondo, specialmente nel Regno Unito. È difficile essere dei veri artisti e musicisti concentrati, o trovare stazioni radio, siti web, riviste che non siano nelle mani dei grandi pubblicitari o delle grandi aziende. Penso sia molto difficile oggi, ma è proprio questo che lo rende più interessante e ancora più bello. Sono molto contento che ci siano realtà come Radio Bandito, tutte queste radio, siti web, riviste, podcast ed eventi che sono al di fuori del mainstream, perché sono testimonianza di quanto siano cose difficili da realizzare nel clima odierno, soprattutto nel Regno Unito dove sembra che il governo se ne freghi dei musicisti, degli artisti, della cultura o di qualsiasi cosa così. Ed è questo che le rende ancora più importanti e penso che ciò che fate sia davvero bello, mi dà molta
speranza e mi entusiasma essere parte di tutto questo con voi.
Abbiamo trovato un tuo articolo che hai scritto l’anno scorso riguardo ad una mostra sul punk in un museo di Leicester. Una delle persone che hai intervistato in quell’occasione ha detto una cosa molto interessante: “L’eredità del punk è eterna. I suoi ethos, lo spirito DIY… puoi fare quello che vuoi. Puoi prendere una chitarra e anche se non sai cantare o suonare puoi creare una band” … Questo è ciò che abbiamo fatto anche noi con Radio Bandito, perché prima di iniziare a far parte di questo progetto alcuni di noi non avevano mai fatto radio…
Jak: Sì è vero, ciò che fate è parte di quello spirito. Non importa se hai l’attrezzatura, se hai i soldi, se hai amici nel settore… La cosa più importante e preziosa è la convinzione che puoi farlo anche tu. Se ascolti la radio e pensi “potrei fare anch’io una canzone così” o “potrei creare anch’io una radio” quello è più importante di tutta l’attrezzatura che potresti avere, è più importante che avere un computer nuovo di zecca con tutti i software installati per fare un documentario o l’attrezzatura audio. La cosa più importante è credere o vedere che puoi farlo. E voi lo state facendo, quindi sì sono d’accordo. È proprio quella l’eredità del punk che pervade qualsiasi cosa: la radio, la musica, l’arte.
Lo pensiamo anche noi, grazie mille Jak!
Jak: Piacere mio!