La Nave dei Folli #4.60 Matteo
Che si tratti del “villaggio globale” o dei rituali festivi propri della cultura techno, il tema del tribalismo e dell’eterogeneità è al centro delle nuove forme di religiosità scaturite dal paradigma informatico. Il fenomeno è però più vecchio, infatti la generazione del dopoguerra negli Stati Uniti è stata fortemente impregnata, attraverso la controcultura degli anni Sessanta, di uno spiritualismo pro-tecnologico. La psichedelia, la sperimentazione di droghe chimiche come l’LSD e il rock elettronico sono, in questo senso, dei figli ribelli della cultura tecnoscientifica. A tal proposito è importante ricordare che le ricerche sull’LSD, dopo essere state iniziate dalla CIA, sono state sovvenzionate, agli inizi degli anni Cinquanta, dalla Fondazione Macy – una delle prime istituzioni a sponsorizzare la cibernetica – e che parecchi cibernetisti delle scienze sociali hanno partecipato alla loro elaborazione. Siamo di fronte a uno dei principali paradossi del paradigma cibernetico, ovvero che una droga destinata a “controllare gli spiriti” è diventata uno dei principali portabandiera della controcultura americana e non solo.
Avevamo già visto come, nell’ambito del Mental Research Institute di Palo Alto, Bateson avesse sperimentato su se stesso questa sostanza in grado di «trasformare gli spiriti e le relazioni tra gli uomini», e non sorprende che uno dei principali rappresentanti della cultura hippie, Timothy Leary, sia anche uno dei guru del ciberspazio. Eppure, malgrado alcune similitudini apparenti tra controcultura degli anni Sessanta e il fenomeno techno degli anni Novanta, i punti di rottura tra questi due movimenti testimoniano un grado diverso di penetrazione culturale del paradigma informatico. Se nella techno ritroviamo la stessa tendenza alla psichedelia, con l’unica differenza che l’ecstasy ha sostituito l’LSD, il rapporto tra tecnologia e religiosità è molto più determinante rispetto alla cultura hippie. Se quest’ultima infatti mantiene una certa distanza critica rispetto alla logica del controllo tecnoscientifico, il movimento techno presuppone un’adesione totale alla tecnologia, percepita come una fonte illimitata di piaceri sensoriali.
Inoltre, contrariamente alla controcultura, nei fatti l’universo techno è decisamente apolitico, come attestano alcune inchieste svolte in Canada su giovani partecipanti ai rave party: «La techno corrisponde a un’evoluzione della società in cui “non si crede più nei messaggi, né nelle grandi teorie”, mentre il rock era associato alla politica.» (Étienne Racine, Le Phénomène techno. Clubs, raves, free-parties, Imago, Paris 2002 (p. 157) Sotto questo punto di vista, e malgrado rarissime eccezioni, si può affermare che la techno rappresenti una delle modalità d’espressione più radicali dei valori postmoderni. Va detto che, almeno agli inizi, c’era una profonda differenza tra il movimento del clubbing legato alle discoteche e quello dei rave, che nascevano come eventi tassativamente illegali, che si svolgevano in luoghi occupati, senza alcun permesso delle autorità e molto spesso al di fuori della logica mercantile. Ma col passare del tempo, solo in minima parte a causa della repressione delle forze dell’ordine e di leggi sempre più restrittive adottate in un paese dopo l’altro (dall’Inghilterra, già negli anni Novanta, alla Francia per finire con l’Italia solo ultimamente), si è arrivati a una sostanziale depoliticizzazione del movimento dei “free party” e le rivendicazioni politiche che hanno segnato il movimento della controcultura oramai hanno lasciato spazio a rituali d’immersione tecnologica in cui l’immaginario digitale e i ritmi techno si fondono per creare un universo globalizzante e desoggetivizzante.
I rituali festivi detti rave mirano a ricreare artificialmente fenomeni di trance, di uscita da se stessi, di sperimentazione sensoriale che rendono sfumate le frontiere tra io e non io. Nella misura in cui l’esperienza tecno nutre una nuova forma di narcisismo collettivo incentrato sui corpi, si può parlare di un collettivismo dell’isolamento. L’amplificazione delle percezioni sensoriali dovuta alle sostanze e i ritmi ripetitivi della musica techno provocano, secondo Jean-Ernest Joos, una sensazione di apertura delle barriere corporali, di comunione collettiva, senza tuttavia dar luogo a un vero comunitarismo: «Il rave non è una trance collettiva, è una trance individuale resa possibile da un’apertura indifinita della superficie. […] Si raggiunge infatti un livello di suscettibilità fisica che non favorisce molto il contatto corporale.» (In Emmanuel Galland, Caroline Hayeur et al., Rituel festif. Portraits de la scène rave à Montréal, 1997) Così, isolato in se stesso, ognuno ha la sensazione di far parte di una totalità che lo ingloba. Si può stabilire un parallelo con le comunità virtuali dove il fatto di “essere connessi” presuppone un certo ritiro dalla società. Si arriva a quel che Philippe Breton in Le Culte de l’Internet ha identificato come un universo culturale ampiamente favorevole alla comunicazione, ma assai poco all’incontro.
Sommario 5.10
Riferimenti 5.10