play_arrow

keyboard_arrow_right

Listeners:

Top listeners:

skip_previous play_arrow skip_next
00:00 00:00
chevron_left
volume_up
chevron_left
  • cover play_arrow

    Live

play_arrow

La nave dei folli

La Nave dei Folli #4.61

micMatteotoday19/02/2024 20 5

Sfondo
  • cover play_arrow

    La Nave dei Folli #4.61 Matteo


Il fenomeno della musica techno che si è diffuso negli anni Novanta ha contribuito all’affermarsi di una religiosità cibernetica, una sacralizzazione delle tecnologie dell’informazione che traspare chiaramente nei rave. Benché tutto ciò sia stato meno percepibile nel nostro vecchio continente, dove la scena dei free party si è mantenuta su un livello più “agnostico”, anche qui una delle primissime tribù semi-nomadi, gli inglesi Spiral Tribe, considerava i rave come «riti techno-sciamanici, in grado di riconnettere la gioventù urbana alla terra da cui si erano distaccati, e lanciando un allarme sull’imminente crisi ecologica», (Matthew Collin, Altered State: The Story of Ecstasy Culture and Acid House, Serpent’s Tail, London 1997, pp. 203-4) e non a caso il loro slogan agli inizi della carriera era “in difesa di madre terra”. In un certo senso si consideravano gli eredi diretti (e in alcuni casi erano, letteralmente, i loro figli) del movimento dei Travellers degli anni ’70, corrispettivo inglese della controcultura americana di fine anni Sessanta, che vivevano in tribù di wagon, ossia furgoni e autobus trasformati in abitazioni, e avevano organizzato molti Festival dei Solstizi in luoghi “sacri” come Stone Henge o Gladstonbury; infine erano stati fermati dalla dura repressione del governo Thatcher nella famosa “battaglia di Beanfield” del 1985, quando un migliaio di poliziotti aveva attaccato una colonna di mezzi che si stava recando a una festa.

Secondo il ricercatore australiano Graham St John e gli altri autori di Rave Culture and Religion (Routledge, London/New York 2004) questa cultura religiosa della musica elettronica, con la sua matrice New Age e Neopagana, ha creato un movimento spirituale in tutto il mondo, da Goa, in India, alla scena tecno-tribale del sudest dell’Australia, da Brasile, Tailandia e Giappone fino al Nord America e al Sud Africa. In un’epoca di cambiamenti geopolitici e di crisi delle ideologie, con la fine dell’Unione Sovietica e il trionfo del neoliberismo, consapevole di vivere in un pianeta segnato da guerre, fame e carestie la gioventù del mondo intero ha cullato il sogno di dare una risposta culturale all’accelerazione della crisi ambientale: con un ottimismo alimentato dalla credenza nel potere della cibernetica e dello sviluppo dell’informatica, ha cercato un connubio tra tecnologia, ecologia e spiritualità favorito e accelerato dalla trance psichedelica attraverso rituali in cui l’eucarestia è sostituita dalle nuove droghe, soprattutto l’MDMA o ecstasy, che non a caso è una sostanza in grado di attivare sentimenti di empatia se non di amore, un «rimedio all’alienazione provocata da una società atomizzata». (S. Reynolds, “Rave culture: living dream or living death?”, in The Clubcultures Reader: Readings in Popular Cultural Studies, Blackwell, Oxford 1997).

Sulla scia della musica dance degli anni Settanta, seguita nel decennio successivo dall’acid house, con l’arrivo degli anni Novanta, secondo David Dei, fondatore della rivista alternativa di Cape Town Kagenna, «stava prendendo forma la più importante manifestazione sociale nella storia dell’umanità». Una realtà frammentaria e raffazzonata costituita da «tecnici della realtà, operatori cibernetici, evoluzionismo pagano e guerriglie trance», stava dando forma a un pensiero in grado di «ricolonizzare lo spazio psichico dell’intera sovrastruttura della società». Era giunta l’ora di «adoperare i nostri nuovi strumenti divini come vere estensioni del nostro essere, per la creazione di un perfetto e meraviglioso mondo profondamente verde». Il “Manifesto dei Raver: Pace, Amore, Unità e Rispetto” che circolava su internet fin dal 1990, dal canto suo sottolineava come l’atmosfera uterina di calore, umidità e oscurità del rave «spingesse a unire le persone per rafforzare le loro menti, i loro corpi e i loro spiriti», creando una «bolla magica in grado, per una sera, di proteggerci dagli orrori, atrocità e inquinamento del mondo esterno. È proprio in quell’istante (…) che ognuno di noi nasce per davvero.» (Raver’s Manifesto)

Nell’ambiente rave religiosità e tecnologia coabitano e si fondono sotto molteplici aspetti, diversi a seconda della zona geografica e dell’epoca presa in considerazione, ma che si possono ricondurre a un’identica matrice: una contaminazione (parola allora molto in voga) tra tradizione spirituale proveniente dai cinque continenti, influenzata da reiki e tantra, yoga e voodoo, rituali tribali africani, messicani, amazzonici, siberiani, uniti alle sostanze psicotrope di origine naturale e molto altro ancora, da un lato; e l’insieme dell’armamentario tecnologico costituito da generatori elettrici, computer e strumentazione per fare musica elettronica, luci stroboscopiche e videoproiezioni con frattali, performance con macchine semoventi e tutto l’armamentario di droghe sintetiche, dall’altro. Seguendo la storia dell’umanità, questo movimento manifestava la tendenza verso una sempre maggiore interconnettività: basandosi sulle teorie di James Lovelock, Peter Russell sosteneva fin dai primi anni Ottanta che Internet sarebbe un modo con cui Gaia stava provvedendo «a far crescere un proprio sistema nervoso». Anche per lui, la crisi ecologica e sociale di quegli anni è una potente «spinta evolutiva» verso nuovi livelli di cooperazione, in cui le cellule umane si stavano auto-organizzando per formare «un network globale in via di rapida integrazione, diventando le sinapsi di un cervello globale che si stava svegliando». (The Global Brain Awakens, 1982). In molti casi, tutto ciò era interpretato in chiave spirituale come un “ritorno alla fonte”, alle origini: come sosteneva Genesis P-Orridge, fondatore del Tempio delle Gioventù Psichica (Temple ov Psychick Youth), si «tornava indietro alle radici del perché la musica era stata inventata: per raggiungere l’estasi e stati visionari, in una celebrazione tribale comunitaria.» (Hillegonda Rietveld, This Is Our House: House Music, Cultural Spaces and Technologies, 1998).

Dal canto suo Douglas Rushkoff, uno dei pionieri della cybercultura, pensava che attraverso il connubio tra sostanze psichedeliche, computer, teorie matematiche del caos e circuiti di retroazione, la musica elettronica stesse facilitando il «cablaggio di una mente globale», un Altro Mondo virtualmente interconnesso che chiamava Cyberia dove gli umani possono «alterare la loro coscienza intenzionalmente attraverso la tecnologia». Secondo lui i rave sono raduni spirituali e l’house music è la religione cyberiana: i DJ svolgono il ruolo dello sciamano che batte il ritmo percussivo della danza e, uniti ad altri tecnici dell’io come i VJ, gli artisti delle installazioni multimediali e i performer, manipolano un insieme di “psicotecnologie” che facilitano la ricerca della visione e dell’autorivelazione, aprono chackra e portali verso la trascendenza, favorendo la coscienza collettiva. Ma Cyberia è molto più di un rave, è la nuova conformazione della società resa possibile dall’avanzamento tecnologico, è quella sognata da ogni scienziato così come da tutte le religioni; ma a differenza di ogni altra epoca anteriore, adesso «è alla nostra portata. I passi in avanti tecnologici della nostra cultura postmoderna, uniti alla rinascita delle idee dell’antica spiritualità, hanno convinto sempre più persone che Cyberia è quel piano dimensionale in cui ben presto l’umanità ritroverà se stessa.» (Cyberia: Life in the Trenches of Hyperspace, Flamingo, London 1994.)

Al termine del libro, Rushkoff ci presenta una delle principali personalità che stava contribuendo alla nascita di Cyberia, quel R.U. Sirius nato Ken Goffman che a cavallo degli anni ’80 e ’90 era editore della rivista Mondo 2000, e che da fervente sostenitore del transumanesimo e della Singolarità nel 2008 diventerà redattore capo della rivista H+. Dopo essersi confrontato con lui capisce come sarà la vera Cyberia: «Non si tratta di affrontare complicati problemi informatici, ingerire nuove sostanze psichedeliche o vivere attraverso i viaggi sciamanici dei progettisti. Non si tratta di apprendere la terminologia dei virus dei media, la teoria matematica del caos o la house music. Si tratta piuttosto di capire come due persone possano vendere smart dug nella stessa città senza farsi impazzire a vicenda. È imparare il modo in cui abbinare le intenzioni delle più prospere aziende della Silicon Valley con i valori di chi usa sostanze psichedeliche che le hanno rese tali. È trasformare una discoteca nell’equivalente moderno di un tempio Maya senza essere beccati dalla polizia. È controllare l’estratto conto della tua banca per vedere se il tuo bancomat è stata craccato, e cercare di capire come punire il ragazzo che l’ha fatto senza trasformarlo in un criminale incallito. È non annoiarsi troppo con i programmi delle persone che dicono di non averne affatto, o con gli stupidi, vuoti luoghi comuni di quelle che dicono di averne. È imparare a confezionare la verità circa la nostra cultura in pezzi adatti ai media e dalla dimensioni ridotte, e a quel punto trovare un editore desideroso di stamparle perché lo hanno colpito in quanto divertenti. Avere a che fare con Cyberia significa adoperare l’attuale limitatezza del nostro umano linguaggio, corpo, emozioni e realtà sociale per dar vita a qualcosa che si suppone sia libero da queste limitazioni. Cose come la realtà virtuale, gli Smart Bars, l’ipertesto, internet, i giochi di ruolo, la DMT e l’ecstasy, la house e i frattali, il campionamento e la musica di Brian Eno, il tecnosciamensimo, l’ecoterrorismo, la morfogenesi, i video cyborg, Toon Town e Mondo 2000, sono ciò che sta lentamente spingendo la nostra società – addirittura il nostro mondo – oltre l’orizzonte degli eventi del grande attrattore alla fine dei tempi. Ma proprio come queste cose, il prossimo meme che farà tremare la terra colpendo le edicole o le reti informatiche potrà essere il risultato di una relazione fallita, di un arresto per droga, di un aborto o di un acido, o perfino di una pisciata su un lato del porticato. Cyberia sta spaventando chiunque. Non solo i tecnofobi, i ricchi uomini d’affari, i contadini del midwest e le casalinghe delle periferie, ma, più di tutti, ragazzi e ragazze che vogliono cavalcare la cresta dell’onda informatica. Surfatela.»

Sommario 5.11

 

Riferimenti 5.11

  • New Age Radio, Eastern Dreaming (Shamanarchy In The UK, 1992)
  • Monkey Pilot & Another Green World, Elephant Eye (Idem)
  • Diatribe, Jonah (Idem)
  • Universal Mind With Sir George Trevelyan, Universe I Love You (Idem)
  • The Irresistible Force, Shamanarchy In The UK (Idem)
  • Tribal Drift, Medicine Hat (Idem)
  • Psychic TV, Ecstacy In The UK (Shamanarchy In The UK, 1992)
  • Arbat, Improvisations Sur Thèmes Tziganes (Voyage en Tziganie, 2004)
  • Gaute Barlindhaug, suono e musiche del film di Emilija Skarnulyte, Kapinynas/Burial (2022)
  • Strange Factory, Sacrifice (Fukushima Nightmare, 2012)
  • The Trip, De sensibus (Time of Change, 1973)

La nave dei folli

0%