La Nave dei Folli #4.81 Matteo
Nella terza tappa del loro percorso, Comune. Oltre il privato e il pubblico del 2009, Hardt e Negri teorizzano un mondo comune «rispetto al quale non c’è alcun “fuori”», che per loro non è soltanto «la ricchezza comune del mondo materiale – l’aria, l’acqua, i frutti della terra e tutti i doni della natura», ma anche «tutto ciò che si ricava dalla produzione sociale, che è necessario per l’interazione sociale e per la prosecuzione della produzione, come le conoscenze, i linguaggi, i codici, l’informazione, gli affetti e così via». (pp. 7-8) Per giungere al comune la sinistra postmoderna cerca di sfuggire all’ambigua oscillazione tra modernità e antimodernità, per cui Hardt e Negri tirano fuori dal cilindro un nuovo concetto, quello di altermodernità. Consapevoli che il progetto moderno è impossibile da riscattare poiché saldamente in mano al comando capitalista, ma rifuggendo la tentazione anarchica e anacronistica di opporvisi in modo radicale, propongono ai post-comunisti questa terza via. «L’altermodernità segna una rottura più profonda con la modernità rispetto all’ipermodernità o alla postmodernità», ovvero deriva dalle lotte contro la modernità e dalle «resistenze nei confronti delle gerarchie che la infrastrutturano», ma «si dissocia dall’antimodernità di cui rifiuta l’opposizione dialettica e da cui si diparte, oltrepassando la resistenza, per costruire delle alternative». Insomma, l’altermodernità «è un dispositivo per la produzione di soggettività» che uniranno le loro forze in nome dell’intersezionalità. (p. 120)
Ci si sbaglierebbe nel vedere in questa proposta una tentazione libertaria, infatti «per poter aprire la strada alla rivoluzione, l’insurrezione deve sostenersi e consolidarsi con un processo istituzionale» in cui la moltitudine è costretta a «mettere le mani sugli apparati di Stato solo per smantellarli». Perciò il «coinvolgimento politico nelle istituzioni statuali è certamente utile e necessario per l’agibilità delle lotte contro la subordinazione. La liberazione, però, non può che proporsi la loro distruzione. L’insurrezione non è nemica delle istituzioni». Hardt e Negri intendono per istituzione qualcosa che, fondato sul conflitto, allarga lo strappo operato dalle rivolte contro l’ordine costituito (e contro le gerarchie delle identità) restando aperta ai conflitti interni. Le istituzioni diventano «componenti imprescindibili del processo insurrezionale e della rivoluzione» e per spiegare questa strana idea non potrebbero scegliere paragone più azzeccato: «Una definizione simile dell’istituzione è ricavabile dalle esperienze comuni che implementano le attività produttive nelle reti cibernetiche. Partiamo dai miti che hanno caratterizzato l’entusiasmo dei primi studi sulle implicazioni politiche della rete, come ad esempio l’impossibilità di esercitare un controllo, il fatto che la trasparenza della rete è sempre buona, e che lo sciame cibernetico è sempre intelligente. Le tecnologie informatiche hanno sicuramente incentivato lo sviluppo di processi decisionali assolutamente innovativi caratterizzati dalla molteplicità e dall’interattività. Mentre le vecchie élite socialiste sognavano le loro “macchine decisionali”, le esperienze degli operatori e degli utenti informatici configuravano un processo decisionale istituzionalizzato costituito da una miriade di microtraiettorie politiche. “Diventare media” è sinonimo di un costruttivismo comunicativo in cui il controllo collettivo dell’espressione in rete diventa un’arma politica.» (pp. 353-355)
In Comune la proposta politica di Hardt e Negri è abbandonare almeno formalmente i miti fondanti la sinistra comunista novecentesca, dal «mito della presa del potere nel senso dell’appropriazione della macchina dello Stato borghese» alla «creazione di un “contropotere” simmetrico e omologo alle strutture dell’ordine costituito». Ma dato che «il processo rivoluzionario non si svolge spontaneamente» esso va governato, e per farlo si ispirano a un tipo di federalismo contenuto nelle «analisi della governance svolte dagli studiosi del diritto e in particolare da un gruppo di giuristi tedeschi che si ispirano alla teoria sistemica elaborata da Niklas Luhmann», dimostrando ancora una volta di attingere a piene mani dal multiforme arsenale della cibernetica. (p. 369-371) Al tempo stesso, nelle pagine centrali del testo si approfondisce la frantumazione del soggetto fino a giungere, in linea con i contemporanei progressi delle politiche identitarie, alla «soppressione in noi stessi del pervicace attaccamento all’identità» (p. 381)
La fascinazione per la cibernetica e i suoi modelli di funzionamento, in questo terzo lavoro rimasta perlopiù sottotraccia, riemerge nelle pagine dell’ultima opera di Hardt e Negri, Assemblea del 2018, dove viene sancita la dissoluzione dell’identità in un “Noi, soggetti macchinici”. Pur riconoscendo che «tecnologie, modi di produzione e forme di vita sono sempre più intrecciati e alcuni di questi sviluppi tecnologici stanno creando disastri e cataclismi per l’umanità e la terra (…) non si risolve il problema semplicemente liberandoci della tecnologia: un simile obiettivo avrebbe poco senso dal momento che i nostri corpi e le nostre menti sono (e sono sempre stati) inestricabilmente connessi con diverse tecnologie. Così come il lavoro non è passivo rispetto al capitale, abbiamo relazioni attive con la tecnologia: creiamo tecnologie e soffriamo a causa loro, le rinnoviamo e poi le superiamo. Invece di rifiutare la tecnologia, dobbiamo partire dal tessuto tecnologico e biopolitico delle nostre vite e tracciare da lì un percorso di liberazione.» (Assemblea, p. 149)
Sommario 5.31
Riferimenti 5.31