La Nave dei Folli #4.82 Matteo
Per spiegare come l’Assemblea di Hardt e Negri sia formata da “soggettività macchiniche” i due si appoggiano a Guattari, secondo cui spesso ci si è concentrati sulla questione della tecnologia mentre invece era solamente un sottoinsieme del problema delle macchine: «Dato che “la macchina” si apre verso il suo ambiente macchinico e intrattiene ogni tipo di relazione con i componenti sociali e le soggettività individuali, il concetto di macchina tecnologica dovrebbe essere esteso a quello di concatenamenti macchinici [ovvero agencements machiniques, traducibile anche come “assemblaggi”].» (Félix Guattari, “À propos des machines” in Chimères. Revue des schizoanalyses, n°19, 1993). Perciò il macchinico non soltanto è diverso dal meccanico, ma anche «dall’idea di una sfera del tecnologico separata e addirittura opposta alla società umana. (…) Il macchinico, allora, non si riferisce mai a una macchina individuale e isolata ma sempre a un assemblaggio.» Anche grazie a Deleuze e Foucault, si approda a una definizione di assemblaggio macchinico come «una composizione dinamica di elementi eterogenei che rifuggono l’identità e, ciononostante, funzionano insieme, soggettivamente, socialmente, in cooperazione tra loro. In questo senso il macchinico ha molte caratteristiche in comune con il nostro concetto di moltitudine, che prova a individuare soggettività politiche composte da singolarità eterogenee», tenendo però a mente che la moltitudine non è da considerarsi esclusiva degli esseri umani. Infatti il concetto di cyborg di Donna Haraway e «i suoi vari tentativi di combattere identità e soggetti essenzializzati» aiutano a infrangere il limite imposto dalla «nostra tradizionale separazione tra umani e macchine e tra umani e altri animali», motivo per cui gli assemblaggi macchinici includeranno tutti «gli esseri o gli elementi che stanno sul piano di immanenza. Tutto questo si fonda sulla tesi ontologica che pone umani, macchine e (ora) gli altri esseri sullo stesso piano ontologico.» (Assemblea, pp. 166-167)
Un altro aspetto importante dell’assemblaggio macchinico riguarda l’idea di “produzione antropogenetica”, per cui si sarebbe passati dal fordismo in cui si producevano merci per mezzo di merci al postfordismo in cui si assiste alla produzione dell’uomo per mezzo dall’uomo. Ma «la potenza di queste nuove soggettività macchiniche è solo virtuale fino a quando non viene attualizzata e articolata nella cooperazione sociale e nel comune», ovvero «la ricchezza e il potere produttivo del capitale fisso sono appropriati socialmente e si trasformano da proprietà privata a comune, allora la potenza delle soggettività macchiniche e le loro reti cooperative possono pienamente attualizzarsi.» Siamo tornati indietro al solito mito marxista-leninista della necessaria industrializzazione della produzione per il trionfo del proletariato che, magicamente, si sarebbe abolito, cent’anni dopo rivisitato in salsa postmoderna con tutti gli aggiornamenti del sistema operativo post-comunista. Come il capitalismo produceva proletariato rivoluzionario che l’avrebbe soppiantato, oggi i due guardano ai giovani «immersi in assemblaggi macchinici» la cui «stessa esistenza è resistenza», per il solo fatto di produrre. «Il capitale deve riconoscere una dura verità: non può che consolidare lo sviluppo del comune prodotto dalle soggettività da cui estrae valore, ma il comune si costruisce solo attraverso forme di resistenza e processi che si riappropriano del capitale fisso.» Qui starebbe a loro avviso la contraddizione su cui investire il loro gruzzolo di capitale militante: «autosfruttatevi, dice il capitale alle soggettività produttive, e quelle rispondono: vogliamo autovalorizzarci e governare il comune che produciamo. Qualsiasi ostacolo nel processo – e anche il sospetto di ostacoli virtuali – può portare a uno scontro sempre più profondo. Se il capitale può espropriare valore solo dalla cooperazione delle soggettività che al contempo resistono a tale sfruttamento, allora il capitale deve innalzare i livelli di comando e azzardare operazioni sempre più arbitrarie e violente di estrazione del valore dal comune», da cui ne scaturirà non maggiore asservimento e alienazione, bensì l’illusione di una rivoluzione non più proletaria ma moltitudinaria. (Assemblea, pp. 168-169)
Mentre Hardt e Negri tentano di sottrarre al capitalismo il primato cibernetico, c’è un’altra cosa che rivendicano per la moltitudine: l’imprenditorialità, la capacità produttiva e riproduttiva della cooperazione sociale. Per farlo, si appoggiano alla teoria dell’imprenditore di Joseph Schumpeter, sottolineando come il capitalista «riceve ingiustamente credito per una funzione imprenditoriale che viene svolta altrove» e che «l’imprenditorialità capitalistica riveli il potenziale della moltitudine». (p. 188) Nelle sue teorie scorgono un forte legame con l’idea di Marx secondo cui, a loro dire, «la cooperazione, mentre accresce la produttività, ha anche un effetto trasformativo sul lavoro, perché crea una nuova forza sociale produttiva» (p. 189), e lo citano quando costui afferma: «Nella cooperazione pianificata con altri l’operaio si spoglia dei suoi limiti individuali e sviluppa la facoltà della sua specie.» (Karl Marx, Il Capitale, libro I, cap. 11, p. 371 – trad. it. di Raniero Panzieri, Editori Riuniti, Roma, 1980) Dunque Schumpeter riconosce come Marx che «la chiave per aumentare la produttività (e quindi i profitti) è la cooperazione dei lavoratori coordinati con sistemi di macchine. (…) Le potenzialità dell’umanità vengono realizzate nella cooperazione, o per meglio dire, una nuova forza sociale si forgia in questo processo: un nuovo assemblaggio macchinico, una nuova composizione di uomini, macchine, idee, risorse e altri esseri.»
Sommario 5.32
Riferimenti 5.32