La Nave dei Folli #4.85 Matteo
La matrice biotecnologica
La negazione del corpo propria dell’informatica spiega in parte il perché le donne siano meno inclini a essere destinate alle alte sfere della programmazione. L’universo rappresentativo proprio di questo ambiente tende a escluderle dal rapporto che si crea nei confronti del computer-figlio. Secondo Philippe Breton «la riproduzione all’interno della tribù avviene fantasmagoricamente grazie da un lato all’unione dell’uomo e della macchina e dall’altro all’esclusione delle donne in quanto “matrici biologiche”. In tal senso, l’esistenza stessa della tribù informatica è in parte condizionata dall’esclusione delle donne che rappresentano una concorrenza indesiderata.» (Philippe Breton, La Tribu informatique, Métailié, Paris 1991, p. 43) Questo rifiuto simbolico della figura materna, che conduce inevitabilmente alla negazione dell’alterità paterna, non si limita al mondo dell’informatica. Se si segue fino in fondo la logica dell’androgino informatico, ci si rende conto che tra la produzione di macchine intelligenti e la riproduzione di esseri umani non c’è che un passo. Ed è proprio quello che tentano di compiere le biotecnologie. Che si tratti di combattere la sterilità, permettere la riproduzione al di fuori dell’atto sessuale o accedere a una forma di immortalità, tutti i motivi sembrano buoni per giustificare l’avanzata trionfale delle tecnologie riproduttive. Dal punto di vista simbolico, queste tecnologie contribuiscono all’ampliamento della matrice cibernetica. Quando afferma che «Il luogo specifico dell’uomo in fieri possiede dunque, dal punto di vista funzionale, le qualità di un utero esterno predisposto tecnicamente, in cui i nati, per tutto l’arco della vita, godono dei privilegi dei feti», Peter Sloterdijk non fa che esprimere, in modo filosofico, l’immaginario legato alla matrice proprio della scienza contemporanea. (Peter Sloterdijk, “La domesticazione dell’essere”, in Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, Bompiani, Milano 2004.)
Sostenendo nel Manifesto Cyborg che «la riproduzione sessuale è uno dei tanti tipi di strategia riproduttiva» Donna Haraway contribuisce alla cibernetizzazione della funzione materna, che è soltanto un aspetto della denaturalizzazione della donna auspicata dal cyber-femminismo. (Donna J. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo [1985], Feltrinelli, Milano 1995, p. 57) In quanto “matrice biologica”, il corpo della donna tende d’altra parte a essere percepito sempre più come una macchina. Il fenomeno delle madri surrogate è in tal senso esemplare. Uno studio americano svolto sulle madri surrogate sottolinea come queste ultime tendano a considerarsi come delle macchine riproduttrici, sebbene attribuiscano a questa capacità di produrre la vita un carattere sacro.
«Eliminando la sessualità dalla generazione e riducendo l’altro al ruolo di risorsa biologica o di strumento di gestazione, queste pratiche (…) conducono a far prevalere l’onnipotenza del desiderio e di un presunto diritto al figlio, rispetto ai diritti dei figli, sovente ridotti a oggetto di dono, di baratto o di vendita. Così, ai sogni di clonazione umana per ottenere l’immortalità succedono i progetti di clonazione che mirano a porre rimedio alla sterilità, addirittura all’assenza o al rifiuto di un partner, e a quel punto la clonazione incarna perfettamente il volto della “ri-produzione” (…) Non si può certo ignorare che un simile progetto di “gestire” un “doppione” deturpi al tempo stesso il femminile materno, la maternità e la paternità, così come la nozione di terzo implicita in quella di figlio. Non si può ignorare che la generazione a quel punto non sarebbe altro che un inquietante simulacro modellato sui giochi di retroazione e di scambio dei flussi d’informazione tanto cari alla cibernetica, come se fossimo già entrati nella strana prefigurazione di un’eventuale “cymèrenétique”». (Louise Vandelac, “Clonazione o l’attraversamento dello specchio”, in Cahiers de recherche sociologique, Numéro hors-série, 2003 Le vivant et la rationalité instrumentale, pp. 147-149)
Quando la sociologa Louise Vandelac parla di cymèrnétique, si capisce che sta denunciando una metafora che non è più tale. Di fronte alla sempre crescente panoplia delle tecnologie che servono a intervenire direttamente prima nella selezione dell’embrione e poi sul feto nella fase di sviluppo, non ci si può stupire che si sia finiti per parlare di bambino-cyborg. Separando riproduzione e sessualità e permettendo lo scambio e il trasferimento dei gameti, le tecnologie riproduttive tendono ad annullare l’ambito corporale e simbolico della procreazione umana. A quel punto non esiste più né padre né madre, ma una matrice tecnica onnipotente. La clonazione occupa una posizione centrale in questo immaginario poiché, in fin dei conti, è il codice genetico che si riproduce, andando così a chiudere il cerchio informatico. Che si dica terapeutica o riproduttiva, la clonazione è fin dalla sua stessa concezione, il compimento fantasmagorico della logica cibernetica. Predicendo la vita eterna grazie alla clonazione, Raël sembra aver colto, meglio di ogni altro, la posto in gioco simbolica soggiacente a tale progetto. Certo, si può ancora sorridere alla vista di questo personaggio, ma come si può restare ciechi di fronte al fatto che egli rappresenta il versante estremo di un movimento che si agita alla base della civiltà?
Se la clonazione costituisce la vetta utopica dell’iceberg biotecnologico, i metodi di selezione dell’embrione, sebbene più discreti, contribuiscono a estendere l’influsso della matrice tecnoscientifica. Lungi dall’annunciare l’avvento di un uomo nuovo, l’ingresso delle discriminazioni genetiche sul mercato della riproduzione umana rappresenta una minaccia reale per la concezione democratica del soggetto. L’eugenismo liberale reso possibile dall’ingegneria genetica rimette radicalmente in discussione le fondamenta delle democrazie moderne. Che sia per evitare la trasmissione di una malattia ereditaria o per migliorare il genotipo, la programmazione selettiva degli embrioni umani investe il principio simmetrico dell’eguaglianza democratica.
In un’opera dedicata a tale questione, Jürgen Habermas dimostra che abbiamo tutte le ragioni per credere che il ribaltamento dell’asse simmetrico tra le generazioni rischia di ridurre il sentimento di eguaglianza tra i figli prodotti dalle manipolazioni biotecnologiche. Per il sociologo tedesco, «venire a sapere che il proprio genoma è stato programmato potrebbe non soltanto creare disturbo al senso di naturalezza per cui noi esistiamo come un corpo (ovvero, per certi versi, “coincidiamo” con esso), ma anche far nascere un modello inedito di relazione tra le persone caratterizzato da una peculiare asimmetria.» (Jürgen Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi della genetica liberale, Einaudi, Torino 2002, p. 44). Non c’è bisogno di evocare il Mondo Nuovo di Huxley per capire che dietro la selezione embrionaria si cela l’anti-umanismo. Interponendosi nell’ordine delle generazioni, la matrice biotecnologica ci tuffa in un nuovo arcaismo in cui l’individuo è programmato ancor prima della sua nascita. Di fronte a una simile regressione simbolica, il tribalismo postmoderno acquista davvero tutto il suo senso.
Sommario 5.35
Riferimenti 5.35